L’esperienza del tragico nella storia

Testi tratti dalla relazione di Don Rinaldo Ottone in occasione del Seminario del percorso FARE PACE

La giustizia nella cultura occidentale è spesso raffigurata con l’immagine della bilancia: c’è giustizia quando i due piatti della bilancia sono in equilibrio. In questo modo si realizza la pace.

Praticare la giustizia darà pace,
onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre.


Is 32,17

Cos’è la Pace? Cos’è la giustizia?

Vogliamo approcciare il tema della giustizia da una prospettiva insolita, ma vitale: dal punto di vista degli affetti, della “giustizia degli affetti”.

Quando parliamo di affetti pensiamo a qualcosa di sdolcinato… ma se al posto di affetti, dicessimo passioni? Gli affetti, le passioni, sanno pensare?

Della serie: Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce. Ma non solo…

La sfida è pacificare pensare e sentire, i due piatti della bilancia, perché la giustizia sia frutto di una ragione affezionata. La giustizia sia frutto di affetti, di passioni che imparano a pensare.

Tutti noi qui ci dichiariamo per la pace, ma quando il gioco si fa duro, qual è la logica che prevale? Quale logica pesa di più?

Queste domande hanno radici tanto antiche, da affondare nell’Antica Grecia.

Tucidide, storico e militare ateniese, ha raccontato in 8 libri quella che era considerata da tutta la civiltà greca “La Guerra”, cioè la Guerra del Peloponneso, combattuta nel V sec per trent’anni, tra le potenze militari del tempo, Sparta e Atene. Grazie a questo racconto storico, comprendiamo che la logica del nostro odierno “pensare occidentale” in tema di guerra, giustizia e pace, trae da lì la sua origine.

Nell’orizzonte ampio di questa guerra, la prima che coinvolse l’intero bacino del Mediterraneo, ci furono due episodi, che lo storico Tucidide riporta, che ci aiutano ad illuminare proprio il tema della giustizia: cosa pesa sulla bilancia, per fare la guerra o la pace?

Sparta (blu nella cartina): aveva 2 re che si controllavano a vicenda e una oligarchia di 28 saggi. Loro combattevano: questo era il loro unico lavoro. Selezionavano i migliori, e combattevano. Tutto il resto, lo facevano gli schiavi. Il territorio spartano era compatto, nella penisola del Peloponneso.

Atene (rosso nella cartina): patria della democrazia, in cui si votava per alzata di mano. Ma: votavano solo i maschi e i cittadini di Atene. No gli schiavi. Esportavano la democrazia con la forza.

Atene si sviluppa sempre più come una potenza marittima: da una costa all’altra del mare Egeo, tutte le città fanno parte dell’impero di Atene.

Solo la piccola isola di Melo vuol restare neutra, così com’è sempre stata fin dalle sue origini di coloni spartani. L’isola è amica di tutti e nemica di nessuno: si rifiuta di aderire alla lega delio-attica, che sta espandendo il suo dominio, e di pagare le tasse per il mantenimento dell’esercito ateniese nella guerra contro Sparta.

Questa neutralità rappresenta un insulto all’egemonia degli Ateniesi che dopo una spedizione “diplomatica” per imporre la resa ai Meli con la forza della persuasione delle parole, invadono l’isola con la forza delle armi, trucidando tutti gli uomini e deportando donne e bambini.

Dal dialogo dei Meli e degli Ateniesi, libro V di Tucidide

Meli: “E che noi restando in pace fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna delle due parti, non l’accettereste?

Ateniesi: “No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza, mentre l’odio lo è della nostra potenza.

Meli: “…voi, distogliendoci dal fare appello alla giustizia, ci volete indurre a servire alla vostra utilità, bisogna pure che noi, qui, a nostra volta, cerchiamo di persuadervi, dimostrando qual è il nostro interesse e se per caso non venga esso a coincidere anche con il vostro. (…) Ordunque, se voi affrontate così gravi rischi per non perdere il vostro predominio e quelli che ormai sono vostri schiavi tanti ne affrontano per liberarsi di voi, non sarebbe una grande viltà e vergogna per noi, che siamo ancora liberi, se non tentassimo ogni via per evitare la schiavitù?”.

Ateniesi: “No; almeno se voi deliberate con prudenza: poiché questa non è una gara di valore tra voi e noi, a condizione di parità, per evitare il disonore; ma si tratta, piuttosto, della vostra salvezza, perché non abbiate ad affrontare avversari che sono di voi molto più potenti”.

Meli: “Per noi cedere subito significa dire addio a ogni speranza: se, invece, ci affidiamo all’azione, possiamo ancora sperare che la nostra resistenza abbia successo”.

Ateniesi: “La speranza, che tanto conforta nel pericolo, a chi le affida solo il superfluo porterà magari danno, ma non completa rovina. Ma quelli che a un tratto di dado affidano tutto ciò che hanno (poiché la speranza è, per natura, prodiga) ne riconoscono la vanità solo quando il disastro è avvenuto. Perciò, voi che non siete forti e avete una sola carta da giocare, non vogliate cadere in questo errore. Non fate anche voi come i più che, mentre potrebbero ancora salvarsi con mezzi umani, abbandonati sotto il peso del male i motivi naturali e concreti di sperare, fondano la loro fiducia su ragioni oscure: predizioni, vaticini, e altre cose del genere, che incoraggiano a sperare, ma poi traggono alla rovina”.

Meli: “Abbiamo ferma fiducia che, per quanto riguarda la fortuna che procede dagli dèi, non dovremmo avere la peggio, perché, fedeli alla legge divina, insorgiamo in armi contro l’ingiusto sopruso.”

Ateniesi: “Se è per la benevolenza degli dèi, neppure noi abbiamo paura di essere da essi trascurati; poiché nulla noi pretendiamo, nulla facciamo che non s’accordi con quello che gli dèi pensano degli uomini e che gli uomini stessi pretendono per sé. Gli dèi, infatti, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli uomini, come chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura, a dominare ovunque prevalgano per forze. Questa legge non l’abbiamo istituita noi , non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l’abbiamo ricevuta e come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto. Da parte degli dèi, dunque, com’è naturale, non temiamo di essere in posizione di inferiorità rispetto a voi.”

Ateniesi: “Mentre dicevate di voler deliberare per la vostra salvezza, nulla in così lungo colloquio avete ancora detto, che possa giustificare in un popolo la fiducia e la certezza che esso verrà salvato dalla rovina: la vostra massima sicurezza è affidata a speranze che si volgono al futuro; le forze di cui al momento disponete non sono sufficienti a garantirvi la vittoria su quelle che, già ora, vi sono contrapposte. Darete, quindi, prova di grande stoltezza di mente, se anche dopo che ci avrete congedati, non prenderete qualche altra decisione che sia più saggia di queste. Poiché non dovrete lasciarvi fuorviare dal punto d’onore che tanto spesso porta gli uomini alla rovina tra pericoli inevitabili e senza gloria. (…) Da questo errore voi vi guarderete, se intendete prendere una buona decisione; e converrete che non ha nulla di infamante il riconoscere la superiorità della città più potente di Grecia, che ha propositi di moderazione; diventarne alleati e tributari, conservando la sovranità nel vostro paese. Dato che vi si offre la scelta tra la guerra e la vostra sicurezza, non ostinatevi nel partito peggiore: il massimo successo arriderà sempre a quelli che si impongono a chi ha forze uguali, mentre con i più forti si comportano onorevolmente e quelli più deboli trattano con moderazione e giustizia. Riflettete, dunque, anche quando noi ci ritireremo; ripetetevi spesso che è per la patria vostra che deliberate; che la patria è una sola, e la sua sorte da una sola deliberazione sarà decisa, di salvezza o di rovina.”

Meli: “Noi, o Ateniesi, non la pensiamo diversamente da prima; né mai ci indurremo a privare della sua libertà, in pochi momenti, una città che ha già 700 anni di vita, ma, fidando nella buona sorte che fino ad oggi, con l’aiuto degli dei, l’ ha salvata e nell’appoggio degli uomini, specie di Sparta, faremo di tutto per conservarla. Vi proponiamo la nostra amicizia e neutralità, a patto che vi ritiriate dal nostro paese, dopo aver concluso degli accordi che diano garanzia di tutelare gli interessi di entrambe le parti”.

Ateniesi: “A quanto pare, dunque, da queste decisioni, voi siete i soli a considerare i beni futuri come più evidenti di quelli che avete davanti agli occhi; mentre con il desiderio voi vedete già tradotto in realtà ciò che ancora è incerto e oscuro. Orbene, poiché vi siete affidati agli Spartani, alla fortuna e alla speranza, e in essi avete riposto la fiducia più completa, altrettanto completa sarà pure la vostra rovina”.

Questo racconto rimase nel cuore degli Ateniesi per la crudezza che l’esercito ateniese mostrò contro i Meli. Tucidide per questo vi ha dedicato così tanto spazio: gli Ateniesi persero la guerra del Peloponneso, sconfitti da Sparta (404 a.C) alleatasi con i Persiani; di fronte alla sconfitta tutti si ricordavano di quello che era stato compiuto contro i Meli un decennio prima (416 a.C)

Ciò che ha prevalso e ha pesato sulla bilancia della giustizia è il principio della forza, prima come poi.

Ci fu un antecedente, narrato nel III libro della Guerra del Peloponneso da Tucidide.

Siamo nel 428 a.C., quarto anno di guerra: La città di Mitilene dell’Isola di Lesbo non vuole più pagare i tributi, aumentati, all’esercito della lega delio-attica. Instaura un regime oligarchico e si ribella.

L’esercito ateniese sopprime la rivolta: conquisterà Mitilene prelevando gli oligarchi dall’isola e portandoli ad Atene. Atene deve decidere: che fare con questi oligarchi? Si convoca la polis per il giudizio: per alzata di mano si decide di uccidere tutti i maschi, e deportare donne e bambini (Ciò che si deciderà anche dopo con i Meli).

Da Atene parte subito una nave perché ci sia esecuzione immediata del verdetto a Mitilene.

Cosa accadde?

Il giorno dopo alcuni dicono che hanno esagerato. Tucidide annota che la gente per strada lo diceva apertamente. Convocano di nuovo la polis, e ricominciano a discutere. Il dibattito si prolunga, discutono, votano, e vincono i moderati. Decidono di uccidere solo gli oligarchi.

Che fare? Mandiamo subito una nave per bloccare il verdetto di uccisione che stava arrivando all’isola.

E’ follia! Come raggiungere la nave partita con un giorno di anticipo?

Tucidide annota che la gente si recava spontaneamente al porto incoraggiando di remare più forte che si potesse, chi dava soldi…

Due navi si rincorrono nel mare, con due verdetti…

Tucidide annota che quella notte i rematori non dormirono. Invece di solito ad un certo unto ci si riposa: quella notte remarono e basta. Le navi erano navi triremi, con rematori a tre livelli. C’erano moltissimi rematori… quanta gente e quanti viveri bisognava avere!

La prima nave era già arrivata, scesero e comunicarono il verdetto. Mentre si preparavano ad uccidere tutti i maschi, vedono all’orizzonte una nave in arrivo. Tutti si fermano ad attendere il suo arrivo…

Perché?

Aspettano la nave: quella nave vorrà dire salvezza per molti. 1000 oligarchi saranno uccisi, 10000 non lo saranno – gli altri maschi. 20000 non sono deportati – donne e bambini.

Conclusioni

La prima nave rappresenta le ragioni della guerra giusta, quella della forza, più impulsiva, la prima cosa che ti vien su. Più razionale, perché garantita con la forza.

La seconda nave rappresenta le ragioni della giustizia degli affetti, più lenta, meno impulsiva. E’ immagine della fragilità della democrazia…

Gli affetti lavorano sempre il giorno dopo, più lenti, più emotivi. Sono più deboli? Più femminili? Meno razionali?

  • La giustizia dipende dalla forza lucida della ragione, o dalle ragioni deboli e instabili degli affetti, o da tutte e due?
  • E dato che entrambe le parti, sia credenti che non credenti, tendono ad accaparrarsi i favori della divinità, chiediamoci: ma il Dio vivo e vero, se esiste, da che parte sta?

Monache Agostiniane
di Pennabilli

Contatti

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