Fratelli e sorelle in cerca di Pace

Ritiro d'avvento

RITIRO 25-27 NOVEMNRE 2022

La spiritualità ha a che fare con la pace, e la pace con la spiritualità?
La spiritualità ha a che fare con la storia travagliata del nostro mondo o è qualcosa di accessibile ai pochi che si illudono di poter spezzare i condizionamenti della violenza e del potere?
Sono domande forse troppo pretenziose.
In loro compagnia abbiamo tuttavia scelto di iniziare il nuovo anno liturgico, nel ritiro d’Avvento. Titolo: Fratelli e sorelle in cerca di Pace.

Un momento di preghiera ci ha ospitato all’inizio di questi giorni, invitandoci a vegliare e ad ascoltare ciò che fatichiamo a percepire: il movimento lieve della vita che si approssima senza violenza tentando la pace in ogni situazione, tempo, luogo, strada.

Pace Fratelli tutti

Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità»

ENCICLICA FRATELLI TUTTI N°272

La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli è raccontata nel libro della Genesi, all’inizio della Bibbia. Essa è stata il grembo che ha accolto ciascuno e tutti con le proprie storie: si è offerta come parola a chi non aveva parole; come silenzio perché ciascuno potesse ascoltare la propria parola da pronunciare.

Nelle pagine di questa vicenda abbiamo scelto di percorrere le vie della pace che sono scritte (e che sono da scrivere) nelle vie della fraternità.

Ci siamo lasciati accompagnare dalle parole di Giuseppe, che in prima persona ha raccontato la sua storia, invitandoci a compiere con lui un viaggio.

Alle parole di Giuseppe si sono accostate le parole di tre simboli – solitamente silenziosi – che ci hanno ospitato nel loro vissuto, facendo eco agli attraversamenti di Giuseppe e dei suoi fratelli.


Prima tappa: un approccio biblico


Giuseppe e i suoi fratelli: le vie della pace


Il brano biblico: prima parte

Sogno

Genesi 37,1-11

Giacobbe si stabilì nella terra dove suo padre era stato forestiero, nella terra di Canaan.
Questa è la discendenza di Giacobbe.
Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli. Essendo ancora giovane, stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro. Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente.
Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancora di più. Disse dunque loro: “Ascoltate il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si posero attorno e si prostrarono davanti al mio”. Gli dissero i suoi fratelli: “Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi dominare?”. Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole.
Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: “Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”. Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io, tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?”.
I suoi fratelli perciò divennero invidiosi di lui, mentre il padre tenne per sé la cosa.

La narrazione di Giuseppe… A cura di Don Davide Arcangeli

Buongiorno, mi chiamo Giuseppe. La mia famiglia è molto ampia, con un solo padre ma molte madri.

Ora sono adulto, ho circa 40 anni, e forse solo in questo tempo della mia vita sto raggiungendo una consapevolezza più matura della mia infanzia e adolescenza.

Mi sono sentito amato, fin da bambino, dai miei genitori, forse anche con una quota di tenerezza in più, dovuta al fatto che sono il primogenito di Rachele, la donna pazzamente amata da mio padre.

Questo amore mi ha dato sicurezza, mi ha fatto sentire il volto di un Dio d’amore che, fin da piccolo, ho percepito come fonte di serenità e ordine, capace di custodire l’uomo, anche nella sua fragilità.

I miei sogni si proiettavano in avanti, facendomi percepire una segreta grandezza. Sognavo di fare dei miei talenti, dell’arte, della scrittura, della musica, uno strumento per comunicare a tutti la bellezza che sentivo dentro di me.

Ma più di tutto mi orientava in avanti il mio forte desiderio di sapienza, di conoscenza, di libertà: sognavo di governare il mondo, con il dono della sapienza, lasciandolo un po’ migliore di come l’avevo trovato.

Nel mio sogno c’era davvero qualcosa di grande, qualcosa che mi portava a sentire una missione, che dovevo compiere fino in fondo, anche per i miei fratelli, anche per i miei genitori. Si, davo l’impressione di sentirmi superiore a tutti.

C’era davvero qualcosa di grande nel mio cuore, che avrebbe dovuto compiersi.

Solo che non avrei potuto realizzarlo, come poi ho capito, se non passando attraverso il travaglio della prova e dell’umiliazione. È lì che si è affinata anche la mia sapienza.

Ancora oggi torno sempre al mio sogno. Lo ascolto e ne trovo nuove sfumature, nuove connotazioni. È davvero inesauribile…

La voce di Giuseppe – A cura di Don Davide Arcangeli

La voce del sogno… A cura di Don Davide Arcangeli

Nel cuore della notte, quando l’uomo che dorme è più connesso alle radici del suo essere, alla terra che lo ha generato e alla carne di cui è plasmato, io opero.

Quando parlo del futuro, io do il meglio di me, perché voglio comunicare con i simboli ciò a cui ciascuno è chiamato, la sua verità più profonda.

Non ho parole precise per raccontare la mia verità,

Solo l’uomo sapiente, colui che riceve da Dio la luce necessaria, può accostarsi a me con il potere di interpretare.

Io sono il sogno di Giuseppe e Giuseppe è diventato il mio padrone, il padrone dei sogni. Come è riuscito? Non ha avuto paura di me, ma fin dapprincipio mi ha accolto, senza troppi pudori. Ha capito che io custodivo la chiave delle sue domande, delle sue sofferenze, dell’amore di suo padre e dell’invidia dei suoi fratelli. Mi ha accolto con la meraviglia di un bambino e con lo stupore di un uomo dal cuore puro, che guarda la vita con una profonda libertà e senza falsa umiltà. Ha cercato la sapienza per interpretare, fidandosi di colui che solo ha nelle mani l’intero disegno. Fino alla fine, dentro alla prova, al fallimento, alla ferita dell’amore rigettato, Giuseppe si è abbandonato a me e così ha conquistato una sapienza superiore, che neanche i maghi di Egitto potevano vantare.

Ha creduto fino in fondo alla perla preziosa contenuta dentro di me e ha sperato contro ogni speranza nel pieno compimento della promessa di Dio.

Io non sono un’utopia.

Al cuore della realtà, esprimo il desiderio di Dio e la potenza di una Parola che non mancherà di realizzarsi, anche nei conflitti e nelle contraddizioni della vita.

La voce del sogno di Giuseppe – A cura di Don Davide Arcangeli


Il brano biblico: seconda parte


Tunica

Genesi 37,12-36

I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro”. Gli rispose: “Eccomi!”. Gli disse: “Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a darmi notizie”. Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli si aggirava per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: “Che cosa cerchi?”. Rispose: “Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare”. Quell’uomo disse: “Hanno tolto le tende di qui; li ho sentiti dire: “Andiamo a Dotan!””. Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan.
Essi lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono contro di lui per farlo morire. Si dissero l’un l’altro: “Eccolo! È arrivato il signore dei sogni! Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in una cisterna! Poi diremo: “Una bestia feroce l’ha divorato!”. Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!”. Ma Ruben sentì e, volendo salvarlo dalle loro mani, disse: “Non togliamogli la vita”. Poi disse loro: “Non spargete il sangue, gettatelo in questa cisterna che è nel deserto, ma non colpitelo con la vostra mano”: egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre. Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua.
Poi sedettero per prendere cibo. Quand’ecco, alzando gli occhi, videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Gàlaad, con i cammelli carichi di resina, balsamo e làudano, che andavano a portare in Egitto. Allora Giuda disse ai fratelli: “Che guadagno c’è a uccidere il nostro fratello e a coprire il suo sangue? Su, vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contro di lui, perché è nostro fratello e nostra carne”. I suoi fratelli gli diedero ascolto. Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto.
Quando Ruben tornò alla cisterna, ecco, Giuseppe non c’era più. Allora si stracciò le vesti, tornò dai suoi fratelli e disse: “Il ragazzo non c’è più; e io, dove andrò?”. Allora presero la tunica di Giuseppe, sgozzarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono al padre la tunica con le maniche lunghe e gliela fecero pervenire con queste parole: “Abbiamo trovato questa; per favore, verifica se è la tunica di tuo figlio o no”. Egli la riconobbe e disse: “È la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato”. Giacobbe si stracciò le vesti, si pose una tela di sacco attorno ai fianchi e fece lutto sul suo figlio per molti giorni. Tutti i figli e le figlie vennero a consolarlo, ma egli non volle essere consolato dicendo: “No, io scenderò in lutto da mio figlio negli inferi”. E il padre suo lo pianse.
Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifàr, eunuco del faraone e comandante delle guardie.

La narrazione di Giuseppe… A cura di Don Davide Arcangeli

Sono vissuto così, in mezzo al vago sentore del mio sogno, fino a 18 anni. Poi è venuta la prova della maturità, il tempo della ferita e della disillusione.

I miei sogni non erano graditi ai miei fratelli. Anzi. Tutto di me causava loro invidia e rancore. Il problema è che all’epoca io non me ne accorgevo.

Quella tunica che mi aveva regalato, il giorno del mio compleanno, all’età di quattordici anni, manifestò un risentimento a lungo covato: da quel momento in poi non ebbi più modo di giocare serenamente coi miei fratelli.

Quel giorno ero andato proprio per stare un po’ con loro, avevo chiesto il permesso a mio babbo, e avevo fatto un lungo viaggio per andare a trovarli. Pensavo: gli farà piacere sapere che ho fatto tutta questa fatica di camminare un giorno interno, solo per venire a trovarli.

Non sapevo che cosa mi aspettava.

Li ho visti parlottare in modo serio, scuri in volto, appena mi hanno scorto da lontano.

Li ho visti dirigersi verso di me e prendermi a forza.

Ho visto di nuovo i loro volti, i loro occhi, non erano più loro. Non erano più i miei fratelli. Chi erano?

Li nel pozzo, dove mi avevano legato e buttato ho perso conoscenza di me. Non capivo più nulla…cosa stava succedendo? Qualcosa mi impediva di rendermi conto fino in fondo, ancora quel meccanismo segreto di difesa. La prima cosa che mi hanno tolto era quella tunica.

Quando mi hanno venduto ai mercanti madianiti non ho opposto resistenza. Ero in uno stato di choc. Durante il viaggio ho dormito sempre…poi ad un certo punto ho aperto gli occhi e ho incominciato a piangere: mi stavo rendendo conto… Ma perché? Perché? Perché? Forse era stata colpa mia? Di chi era la colpa?

In fondo al cuore, al culmine del dolore, una piccola fonte gorgogliava, appena udibile, in profondità: non temere, non temere…non c’è colpa, c’è solo dolore, io sono qui. Era la sorgente zampillante della Sua Sapienza, appena udibile, ma che in seguito avrei imparato ad ascoltare e sarebbe diventato un fiume in piena.

La voce di Giuseppe – A cura di Don Davide Arcangeli

La voce della tunica… A cura di Don Davide Arcangeli

Sono bianca e ho lunghe maniche, fatta apposta per la crescita di un ragazzo molto amato. Io sono stata fatta apposta per Giuseppe, tessuta tutta d’un pezzo, con un lavoro frutto di mani esperte e occhi attenti, uniti ad un cuore amorevole, che pensa al futuro di un uomo e si preoccupa di custodirlo.
Io esprimo la predilezione di un padre e la tenerezza di una madre, ogni mia fibra è intessuta della premura di Giacobbe e del pianto di Rachele, nell’attesa sterile di un figlio unico, mentre la benedizione di Dio era scesa su Lia, arricchita di molti figli. Amore e fecondità si son come divise, mistero di un dono distribuito, tenendo insieme sorelle rivali. Io racconto questo mistero.
Dalle sorelle ai figli, la rivalità diviene fastidio, tensione, inimicizia, odio. Solo la vista di questa mia sovrabbondanza, di queste maniche lunghe, segno di cura per il futuro, mi hanno procurato sguardi feroci. Io che volevo esprimere il segno piccolo e tenero di un dono per tutti i fratelli, sono diventata per loro laccio di inciampo e pietra di scandalo.
La mia sola presenza ha fatto da detonatore ad un odio a lungo covato.
Il biancore della mia benedizione è stato macchiato dal sangue della ferita. Una ferita profonda, scavata dentro la carne dell’uomo; una lacerazione insanabile, segno di una rabbia incontrollabile che ha trasformato dei fratelli in un branco di cani feroci e affamati.
Affamati d’amore, feriti dalle carenze dei loro genitori.
Io sono la tunica dalle lunghe maniche, macchiata dal sangue della ferita, lacerata dalle unghie di persone schiave del loro passato. Su di me si accumulano le lacrime di un padre disperato e inconsolabile.
Stretta tra le sue mani, penso che comunque sono ancora integra e che la lacerazione si potrà ricucire, con mani che filano un nuovo tessuto. Sono i fili della sapienza di Dio, l’unico che potrà trarre dal male un bene più grande, da una ferita profonda una feritoia d’amore e una speranza di futuro.

La voce della tunica – A cura di Don Davide Arcangeli


Il brano biblico: terza parte


Genesi 45,1-15

“Allora Giuseppe non poté più trattenersi dinanzi a tutti i circostanti e gridò: “Fate uscire tutti dalla mia presenza!”. Così non restò nessun altro presso di lui, mentre Giuseppe si faceva conoscere dai suoi fratelli. E proruppe in un grido di pianto. Gli Egiziani lo sentirono e la cosa fu risaputa nella casa del faraone. Giuseppe disse ai fratelli: “Io sono Giuseppe! È ancora vivo mio padre?”. Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli, perché sconvolti dalla sua presenza. Allora Giuseppe disse ai fratelli: “Avvicinatevi a me!”. Si avvicinarono e disse loro: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto. Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: “Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù presso di me senza tardare. Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. Là io provvederò al tuo sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non cadrai nell’indigenza tu, la tua famiglia e quanto possiedi”. Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è la mia bocca che vi parla! Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto avete visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre”. Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui.”

La narrazione di Giuseppe… A cura di Don Davide Arcangeli

Il tempo è trascorso e ha sopito il dolore e rimarginato la ferita. In Egitto ho trovato un buon padrone, che mi voleva bene e si è preoccupato di istruirmi alla lingua e cultura egiziana, perché potessi diventare un suo servo capace e abile.
Nel mio cuore c’era ancora una ferita, ma era sopita in profondità e i giorni scorrevano sereni: non mi chiedevo più nulla. Il sogno? Era parte di un’altra vita. Riaprire il sogno avrebbe voluto dire riaprire le sofferenze…perché farlo? Ora non mi chiedevo più nulla: anche Dio, il Dio di Israele, sembrava a me lontano. Chi era veramente il Dio dei miei padri?
Tutto poi accadde all’improvviso: gli occhi di quella donna, la moglie del mio padrone, divennero col tempo sempre più voraci, e le sue mani calde e febbricitanti. Dovetti scappare dalla febbre del suo abbraccio, così violento che brandelli della mia veste le rimasero nelle mani.
Poi, ancora una volta, fui imprigionato, così com’ero, nudo, senza nulla con me. Cosa mi accade? Dove vado? Chi sono? Perché questo? Ancora quello choc e quelle domande. Ma ancora una volta, nel buio del carcere, mentre ero solo con me stesso, al culmine dell’angoscia, udivo una fontana gorgogliare in me: non temere…io sono con te.
In carcere mi feci ben volere. Quello che i detenuti apprezzavano particolarmente era la mia capacità di ascoltarli. L’ascolto mi permetteva di decifrarne la vita, l’orientamento, la spinta segreta. In carcere sono diventato baal hammahalot, il Signore dei sogni, come scherzosamente mi chiamavano i compagni, sorpresi dal fatto che le mie interpretazioni dei loro sogni avessero sempre qualcosa di vero.
All’improvviso, senza sapere come, fui convocato dalla direzione del carcere. Mi lavarono, mi profumarono, mi pettinarono e incipriarono, mi vestirono elegantemente e mi portarono in carrozza nella casa del Faraone. Non capivo. Mi introdussero dal gran visir d’Egitto, che cominciò a riferirmi un certo sogno del Faraone e mi chiese di interpretarlo. Compresi: le sette vacche grasse come sette anni di prosperità, le sette vacche magre come sette anni di carestia. Una luce guidò le mie parole, che scorrevano facili e rapide, senza che potessi fermarle o chiedermi da dove venisse quella sapienza: accumulate nei granai, in attesa della carestia, per poi vendere ad alto prezzo e guadagnare.
Il visir apparve soddisfatto: da quel momento fui ammesso alla corte e cominciai una nuova vita. Fui introdotto ai segreti amministrativi di quel Regno e imparai la bimillenaria scienza del Fiume, il gran serpente antico, colui che dà la vita con la sua acqua.
Percorsi brillantemente tutti i gradi della carriera amministrativa guadagnandomi la stima e l’ammirazione del grande dio, del sole, di colui che solo raramente mi era concesso di guardare in volto. Era il Signore a ispirargli quel senso di fiducia nei miei confronti.
Mi feci una famiglia: una terza, nuova vita era iniziata, seppellendo per sempre, almeno così mi pareva, quelle precedenti. Non mi chiedevo più perché, ma quella fonte gorgogliava sempre nel mio cuore, in modo segreto.

I sette anni di carestia erano cominciati, da almeno due anni, quando un suono familiare mi arrivò all’orecchio: nella fila di coloro che portavano le richieste ai granai del Regno c’erano alcuni che parlavano la mia lingua nativa…mi volto e vedo: Ruben, Gad, Giuda… i miei fratelli.
Una voce mi guida: accostati e aiutali. Ordino di farli entrare nel palazzo, li accolgo e chiedo informazioni, tramite un mio servo traduttore. In quel momento non provavo nulla, se non l’infinita curiosità di capire un disegno nascosto. Poi piansi, e ancora quella voce gorgogliava in me in quel pianto: vai e fa quanto di dirò nel cuore…
Li accusai di essere spie e li tenni in carcere per tre giorni, poi li rimandai chiedendo di ritornare con il loro fratello più piccolo, Beniamino, fingendo di mettere alla prova la loro sincerità. Non provavo risentimento: solo il dolore a tratti riaffiorava, misto a quella profonda consolazione della fonte gorgogliante.
Essi tornarono dopo un anno. Li accolsi con tutti gli onori e per Beniamino preparai una pietanza speciale. Poi li rimandai pieni di sacchi e di soldi e con una coppa nel sacco di Beniamino. Lo accusai di furto e promisi di imprigionare colui nel cui sacco si sarebbe trovata la coppa.
A quel punto Giuda a nome di tutti gli altri fratelli, ricordando il peccato commesso contro di me, si offrì come schiavo al posto di Beniamino…quella consegna d’amore da parte di mio fratello ha riaperto la diga del dolore e dell’amore, misti insieme. La sapienza di Dio esultava in me, come un fiume in piena: l’offerta d’amore ripaga finalmente il peccato: ora è il momento del riconoscimento, il momento di rivelare il mio volto ai miei fratelli e ritornare a parlare con le dolci parole della nostra lingua.
In quella casa, nella casa del Faraone, ci siamo ritrovati come ospiti e fratelli: questo aveva preordinato la sapienza del Signore, per far vivere e prosperare quella famiglia nei tempi della carestia. Mirabile tessitore di fraternità, tra uomini e popoli, il Dio di Israele conduce le storie ricurve di ciascuno, verso una rinascita piena e un nuovo futuro.

La voce di Giuseppe – A cura di Don Davide Arcangeli

La voce della casa… A cura di Don Davide Arcangeli

Io sono la casa del faraone, testimone di ciò che avviene in famiglia, del miracolo di un amore che si rinnova dopo ogni discussione, litigio, incomprensione, e può rinascere più vivo di prima.

Io ho visto lo stupore dei ministri del Faraone e di tutta la sua corte, per questo misterioso ricongiungimento: come l’amore può rigermogliare dopo un tale rifiuto? Come un uomo, divenuto egiziano, può ritrovare le sue radici e sentirsi di nuovo a casa?

Io sono testimone di una fraternità recuperata, attraverso il passaggio dentro al trauma della ferita. L’espiazione dell’offerta di sé, fatta una volta per sempre da Giuda, per il proprio fratello più piccolo Beniamino, ha finalmente ricucito la ferita della vendita di Giuseppe.

Io sono testimone di una sapienza che non cerca vendetta, che non gode di restituire il male ricevuto, che non condisce i propri gesti con il sugo del risentimento. Questa sapienza che viene dall’alto è l’unica che può guidare il servo dentro ai sentieri del dolore e delle relazioni ferite per ricucirle con lo Spirito del pentimento e della riconciliazione.

Io sono la casa che ospita questa sapienza e tengo dentro di me fratelli e sorelle, popoli e lingue, culture e religioni. In me Egitto ed Israele vivono insieme e l’Altissimo mi tiene salda.

Io, la casa del faraone, ospito vittime e oppressori di questo mondo e offro, attraverso il mio servo Giuseppe, la via d’uscita dalla violenza. Così anticipo in me la casa-città della pace, la yerushalaim a cui siamo tutti destinati, la città che viene dal cielo, pronta come una sposa, adorna per il suo sposo.

La voce di Giuseppe – A cura di Don Davide Arcangeli

Seconda tappa: la riflessione

È l’esperienza vissuta insieme che ci conferma nell’intuizione che sono le relazioni i luoghi dove scoprire e sperimentare il nostro essere uomini e donne in cerca di spiritualità.
Sono le relazioni lo spazio misterioso in cui la carne e lo spirito si incontrano, si abbracciano, si compenetrano, facendo di noi “persone pacificate”, territori in cui l’io e il tu, da rivali che devono accaparrarsi l’unica benedizione disponibile, divengono fratelli, accedendo all’ampiezza della benedizione che la vita riserba per tutti e ciascuno.
Le relazioni ci insegnano ad inseguire i sogni, a osare la forza di attraversare la violenza dell’incomprensione che tende al fratricidio, ci donano la possibilità di ricevere e donare il perdono: “a vincere, mollando”.

VINCE CHI MOLLA – Niccolò Fabi

Il nostro percorso termina nel tentativo di concentrare e riassumere la complessità di quanto vissuto insieme, legandolo alla ricerca di una pace che vuole fondarsi nella fraternità; che vuole fondare la fraternità. Sarà possibile?

È questa la domanda che ha guidato il momento della condivisione, nel desiderio di viverlo non solo come racconto di esperienze, ma come l’ultimo gesto, per concludere – e quindi vivere davvero – la proposta spirituale di questi giorni.


Una parola di Pace condivisa


Le nostre definizioni di Pace


PACE è…

  • …fare ancora posto.
  • … ritornare all’origine del nostro esserci.
  • scegliere di disinnescare la violenza e accogliere le differenze proprie e quelle degli altri pronti a costruire uno spazio nuovo.
  • perdono.
  • …respiro che sceglie: mai senza l’A(a)ltro.

Queste dinamiche emerse dalle definizioni di pace, che riguardano il cuore delle persone, come si chiamerebbero e come si declinerebbero nel grande, nelle relazioni tra le nazioni e gli stati?

Paola BignARDI

Monache Agostiniane
di Pennabilli

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